A proposito di guerra. Dialogo a distanza con TOMASO MONTANARI e altr* diversamente umani

Un terribile amore per la guerra”, titolo di un libro di James Hillman. Tomaso Montanari conclude questa sua straordinaria lezione di storia e di cultura citandolo.

Un amore per la guerra che dura da diecimila anni, ci disse Elsa Morante, da Omero – o anche prima – ai giorni nostri.

Con divinità che conducono eserciti, nel passato. Got mit uns, in tempi recenti.  Armate benedette prima della partenza. Croci brandite come spade. Guerre giuste. Da non confondere con Resistenze giuste, dice una parte di me, nata da una donna e un uomo che a suo tempo hanno resistito, quando la storia ha imposto a loro di farlo.

Ma oltre ogni contesto e complessità della storia, la guerra è faccenda  patriarcale  di cui il femminismo ha orrore e ne ha scoperto le radici, dalle origini ai giorni che si avvicinavano alla guerra, che Virginia Woolf spiegò, una delle prime a vedere il nesso fra Mussolini, virilismo, militarismo. Potere, controllo, dominio. Come contrastare la guerra, le guerre. Non con le stesse armi di chi le guerre le fa, in un circolo vizioso senza fine. Altre parole, altri metodi, chiese Virginia Woolf. Ma non li vide. Furono per lei anni disperati, anche per avere perso nella guerra di Spagna, nelle brigate internazionali, un nipote amatissimo, il più amato, Julian Bell, corso in Spagna, come tanta gioventù da varie parti del mondo, per aiutare la Repubblica antifascista.

L’autodifesa degli ucraini  dalla aggressione orrenda di Putin è da ammirare, come ricorda Montanari. Ma quello che stiamo ascoltando da più parti, in questi giorni, è il riemergere di una accettazione meccanica della guerra e delle sue atroci leggi. Con scioltezza veloce si stanno deliberando riarmi, ovunque. Sarebbe questo un buon auspicio per la necessaria mediazione, ricomposizione? Come se la guerra fosse un dato di natura, inevitabile, tanto da pervadere tutto. Linguaggi, atmosfere, confronti, in una grande confusione che rilegittima censure, anatemi, disprezzo. A chi, come è il mio caso, dice di non inviare armi – sarebbe gettare benzina sul fuoco – viene detto “sei filo Putin”, rispondo che sono parole prive di logica, prima ancora che di fantasia. A chi definisce Manconi, che pensa sarebbe meglio inviare armi ai resistenti, un venduto al capitale, rispondo che ha perso la bussola, ben più di Manconi.

E’ bello morire per la patria, antico adagio? A volte è necessario morire per una patria ideale, quella della giustizia.

Quasi mai questa fu una passione di chi perì nel macello della prima guerra mondiale, per esempio.

Lo fu per Piero Calamandrei, che andò volontario, con spirito di giovane intellettuale immerso in ideali risorgimentali, mazziniani ma non nazionalistici.  Non pensò mai che sarebbe stato bello morire. E non morì, per fortuna sua e nostra.

Montanari, inoltre, ricorda Carlo Rosselli, amico di Calamandrei, e cita sue parole altissime. La patria, la mia patria, non è limitata da confini, ma circoscritta da leggi morali, di libertà e giustizia.

Altre parole ho trovato in questo articolo di Montanari, che mi aiutano a meglio individuare la mia patria ideale, nella quale credo riposi anche Virginia. Da Alberto Liess, che evoca oriente e occidente, fino a Ugo di San Vittore, nel pieno della sapienza medievale, troviamo un internazionalismo che vede nel mondo intero la patria. Pensiero minoritario ma di lunga durata, da Democrito a Virginia Woolf agli anarchici del Novecento, fino alla mia gioventù internazionalista.

Oggi – molto lontana è la mia gioventù – cosa vedo? Un internazionalismo nazionalista, un patriottismo ammalato di suprematismo patriarcale, un virilismo che disprezza ogni differenza.

A est e a ovest, da Trump a Putin, da Johnson a Salvini, da Orban a Erdogan, senza dimenticare Modi, espressamente filo Putin.

Quale è allora la mia parte?

Una parte ideale, minoritaria ma viva da millenni. Diversamente scandalosa rispetto all’orrendo scandalo che la guerra è. Lo disse anche un uomo, all’inizio dell’età moderna, Erasmo da Rotterdam, che scrisse “Il lamento della pace”, con parole chiare. La guerra è inutile e stupida. Era il 1517. L’Europa sconvolta da guerre. Stava inziando la rivoluzione luterana, anteprima di guerre i religione che durarono poi più di un secolo, come se non bastassero quelle in corso da sempre.

La piccola scandalosa parte alla quale appartengo è alla ricerca, come Virginia,  di altre parole, altri metodi, altre strade.

La politica che cosa è? Superare i conflitti senza violenza.

Hannah Arendt e articolo 11 della Costituzione  della Repubblica italiana.

Paola Patuelli

 

CONTRO OGNI NAZIONALISMO

Volerelaluna.it

23/03/2022

Tomaso Montanari

 

«Dulce et decorum est pro patria mori». Il celeberrimo verso delle Odi di Orazio è «la vecchia

bugia», scriveva Wilfred Owen. Non è dolce, non è dignitoso morire per la patria, gridava il poeta

inglese (prima di morire lui stesso in battaglia, a una settimana dalla fine della Grande Guerra):

Piegati in due, come vecchi accattoni sotto sacchi,

con le ginocchia che si toccavano, tossendo come streghe, bestemmiavamo nel fango,

fin davanti ai bagliori spaventosi, dove ci voltavamo

e cominciavamo a trascinarci verso il nostro lontano riposo.

Uomini marciavano addormentati. Molti avevano perso i loro stivali

ma avanzavano con fatica, calzati di sangue. Tutti andavano avanti zoppi; tutti ciechi;

ubriachi di fatica; sordi anche ai sibili

di granate stanche, distanziate, che cadevano dietro.

Gas! Gas! Veloci, ragazzi! – Un brancolare frenetico,

mettendosi i goffi elmetti appena in tempo;

ma qualcuno stava ancora gridando e inciampando,

e dimenandosi come un uomo nel fuoco o nella calce…

Pallido, attraverso i vetri appannati delle maschere e la torbida luce verde,

come sotto un mare verde, l’ho visto affogare.

In tutti i miei sogni, prima che la mia vista diventasse debole,

si precipita verso di me, barcollando, soffocando, annegando.

Se in qualche affannoso sogno anche tu potessi marciare

dietro al vagone in cui lo gettammo,

e guardare gli occhi bianchi contorcersi nel suo volto,

il suo volto abbassato, come un diavolo stanco di peccare;

se tu potessi sentire, ad ogni sobbalzo, il sangue

che arriva come un gargarismo dai polmoni rosi dal gas,

ripugnante come un cancro, amaro come il bolo

di spregevoli, incurabili piaghe su lingue innocenti, –

amico mia, tu non diresti con tale profondo entusiasmo

ai figli desiderosi di una qualche disperata gloria,

la vecchia bugia: Dulce et decorum est

pro patria mori.

(traduzione italiana di Emanuela Zampieri).

Pensieri e parole che dovremmo in fretta ritrovare, prima di essere sommersi dalla retorica

patriottarda che in Occidente inneggia alla guerra. «La patria non è l’astrazione che manda gli

uomini al massacro, ma un certo gusto della vita che è comune a certi individui: […] la sua vita, i

cortili, i cipressi, le trecce di peperoni […] i paesaggi assolati, e non i fondali teatrali in cui un

dittatore si inebria della propria voce, e soggioga le masse». Salgono alle labbra queste parole di

Albert Camus (1937) quando si vede, su twitter, che il messaggio ucraino in cui si esulta per

l’uccisione di un certo, efferato, militare russo (di cui si posta una fotografia) riceve migliaia di like

dall’Italia. Putin è un despota criminale, la sua è una guerra di aggressione, l’autodifesa degli ucraini

è indiscutibilmente legittima: e però davvero qua, in Italia, dobbiamo esultare per l’uccisione di un

umano, guardandolo in faccia?

Non vorrei discutere della legittimità delle scelte (inviare le armi o no), o dell’enormità del rischio

nucleare – quello per cui in queste notti mi sveglio di soprassalto. Vorrei solo dire che facendoci

risucchiare nel baratro dei nazionalismi stiamo uccidendo «l’umano nell’uomo», per usare

un’espressione carissima a Vasilij Grossman, gigantesco scrittore russo, nato in Ucraina ed ebreo,

vittima del nazismo e poi dello stalinismo. Chi si trovò a dover combattere contro il fascismo e il

nazismo non pensò di farlo per una qualche specifica patria, ma anzi per la fine di ogni nazionalismo:

«Siamo antifascisti non tanto e non solo perché siamo contro quel complesso di fenomeni che

chiamiamo fascismo; ma perché siamo per qualche cosa che il fascismo nega ed offende, e

violentemente impedisce di conseguire. Siamo antifascisti perché in questa epoca di feroce

oppressione di classe e di oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e

giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e metta la ricchezza,

accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo antifascisti perché nell’uomo riconosciamo

il valore supremo, la ragione e la misura di tutte le cose, e non tolleriamo che lo si umilii a strumento

di Stati, di Chiese, di Sette, fosse pure allo scopo di farlo un giorno più ricco e felice. Siamo

antifascisti perché la nostra patria non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo

morale e con la patria di tutti gli uomini liberi» (Carlo Rosselli, 1934).

Per costruire questa “cittadinanza universale”, la cultura è la leva fondamentale. Per questo,

imporre agli artisti russi di rilasciare pubbliche dichiarazioni di condanna del loro governo, o

chiudere le collaborazioni di ricerca con gli studiosi russi, è un terribile errore. In questi giorni, è

stato Alberto Leiss a evocare (su il manifesto) l’antidoto più giusto. Sono parole di un arabo cristiano

che, studiando la percezione occidentale dell’Oriente, cita un tedesco che studiava filologia romanza,

che a sua volta cita un monaco medioevale: un intarsio di tempi, di diversità e di luoghi che

basterebbe a mostrare il valore universale di questo messaggio. Ebbene, a Edward W. Said (in

Orientalismo, 1978) stava a cuore «la tradizione umanistica di coinvolgimento in culture e

letterature nazionali differenti dalla propria», e per questo ricordava come il grandissimo Erich

Auerbach concludeva le sue riflessioni sulla filologia di una “letteratura mondiale” (1952) «con una

significativa citazione dal Didascalicon di Ugo di San Vittore (XI secolo): “L’uomo che trova dolce il

luogo natale è ancora un tenero principiante; quello per cui ogni suolo è come il suolo nativo è già

più forte; ma perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero”». Il monaco medievale,

commentava Auerbach, «si riferisce a chi ha come mèta la liberazione dall’amore per il mondo. Ma

anche per chi voglia raggiungere il giusto amore per il mondo, questa è sempre una buona strada».

La morale, spiega Said, è che «più si è capaci di staccarsi dalla propria patria culturale, più è

agevole giudicarla, e giudicare il mondo stesso, con quel distacco culturale e quella generosità

indispensabili per un’autentica visione delle cose. E tanto più, inoltre, si riuscirà a valutare se stessi

e le altre culture con l’identica combinazione di intimità e distanza».

Ebbene, in queste ore in cui chi protesta in Russia contro una guerra fratricida è arrestato perché

“filo ucraino”, e in Italia chi protesta contro la corsa alla guerra atomica è bollato come “filorusso”;

in queste ore in cui leggere Dostoevskij è sospetto; in queste ore in cui torna a risuonare nei discorsi

di politici e giornalisti «un terribile amore per la guerra» (James Hilmann); in queste ore in cui «le

azioni sono considerate buone o cattive non per il loro valore intrinseco, ma a seconda di chi le

compie» (così Orwell nei suoi Appunti sul nazionalismo, 1945), è vitale trovare la forza per prendere

le distanze dalla propaganda, e per criticare innanzitutto la nostra parte e la nostra patria. In un

momento in cui tutta l’umanità è davvero in pericolo, l’unica identità che conta è quella umana.

Author: Paola Patuelli

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